scenario


Il tatto
Il tatto è il senso che ci permette di conoscere forme, temperatura, dimensione, ruvidezza, levigatezza, durezza di un corpo.
È esteso in tutta la cute, grazie ad una fitta relazione di terminazioni nervose. La parte più sensibile è quella del gomito (estratto da: “Il corpo umano” di Marco Bussagli). Le mani, invece, risultano la miglior mediazione tra sensibilità e resistenza, inoltre sono le prime, grazie alla loro collocazione, ad affrontare ed interagire con il mondo.
San Tommaso dice: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò mai”.
Ed ancora, la locuzione “toccare con mano” si riferisce al legame che il tatto ha con il reale. È il senso del concreto, capace di non lasciare fraintendimenti, permette di distinguere quello che è virtuale da ciò che non lo è.
Esso ha una relazione diretta con oggetti e persone, senza ulteriori mediazioni.
Per una persona vedente il tatto non è il primo senso di riferimento. Infatti circa l’80% delle informazioni passano attraverso la vista. Ma non si pensi che i non vedenti debbano vivere il mondo solo con il restante 20%. Infatti la loro attenzione è più focalizzata su tutti gli altri sensi. Il tatto, tra questi, è il senso che gli permette di avere un contatto diretto con la realtà. I non vedenti non hanno una sensibilità più acuta, bensì sono più esercitati di noi.
Attraverso il tatto, un non vedente, esplora un corpo partendo dal particolare sino a costruire mentalmente l’intera immagine.
Inizialmente si crea uno schema complessivo dell’oggetto per esplorarne poi, i particolari, collocandoli nel quadro d’insieme.
Il tastare dà una visione frammentata in cui il pensiero, dovrà unire le singole parti, dando al tutto un senso compiuto. Questo tipo di lettura prende il nome di “esplorazione aptica”, è un modo di comprendere il mondo che richiede una grande capacità di astrazione e memoria.
È sbagliato pensare che, nel bambino non vedente, il tatto venga usato spontaneamente, a toccare si impara, come bisogna imparare a guardare e a fidarsi di ciò che esiste al di fuori di noi stessi.
Il tatto, inoltre, può esplorare contemporaneamente un corpo da diversi lati, mentre la vista affronta le cose da un lato solo. Essa non penetra in profondità ma vede solo quella superficie bidimensionale rivolta verso lo spettatore.
Lo sguardo, come dice Goodman (Sommerville, 1906 – Needham, 1998, filosofo)
“... seleziona, respinge, organizza, discrimina, associa, classifica, analizza, costruisce. Non tanto rispecchia quanto raccoglie e rielabora.”.
Ci chiediamo, dunque, se le cose reali siano vere quando le vediamo o le tocchiamo.

Lo spazio
La vista è il canale più importante per l’orientamento, essa permette di localizzare contemporaneamente stimoli diversi e, con un semplice colpo d’occhio, afferrare una situazione.
Né l’udito né il tatto compensano la carenza visiva.
L’udito permette di accorgersi della presenza di un corpo solo se questo emette suoni. Il tatto fornisce informazioni limitate e solo in un campo percettivo ristretto.
Per un bambino nato cieco è difficile da comprendere che c’è dello spazio tutto intorno a lui e che ogni cosa ha una sua distanza, dimensione tridimensionalità. Con il tempo e l’esperienza riuscirà a gestire questi rapporti.
Ma dov’è il mondo quando il bambino non vedente non ne fa esperienza?
Questa è una consapevolezza da apprendere. Un gioco come quello di buttare ripetutamente per terra un oggetto per poi farlo recuperare dal genitore lo aiuta in questa importante scoperta: che le cose esistono ancora.
Il passo successivo all’esplorazione delle cose che lo circondano, sarà quella di incuriosirsi verso il tutto.
Capirà che non solo il mondo si mostra a lui, ma che è lui in grado di andare verso il mondo, di porsi dunque in prima persona al centro dello spazio. Intorno a se stesso crea una rete di relazioni che risulta però non ben strutturata, molti punti ne rimangono vuoti. Solo successivamente potrà pensare ad un ambiente senza disporsi al centro di esso, in modo più astratto.
Infatti il movimento non è solamente una funzione motoria, ma soprattutto un fattore cognitivo che richiede di rappresentare mentalmente una mappa nella quale orientarsi.
In tutto questo, la presenza del genitore nella crescita del proprio figlio è particolarmente importante ed essenziale, esso ne è il primo educatore.

Il colore
Da sempre il colore ha stimolato curiosità in filosofi e ricercatori. Spinosa, per esempio, scrisse un trattato sull’arcobaleno. Newton analizzò le diverse componenti della luce bianca. Goethe si interessò alla luce che si riflette in un prisma per poi rielaborare la sua teoria del colore e ancora molti altri vennero ammaliati da questo argomento.
La teoria classica sostiene che i colori dipendano automaticamente dalla lunghezza d’onda. Successivamente si iniziò a supporre che fossero una costruzione del nostro cervello. Un mondo in cui la realtà appare colorata.
Per un non vedente che ha perso la vista dopo i tre anni di vita, il colore è un ricordo che fa parte della sua memoria.
Alcuni ipovedenti si ricordano e vedono il colore poiché riescono a percepirlo.
I ciechi dalla nascita, invece, non hanno alcuna possibilità di comprendere il colore, se non in modo teorico.
Non possono avere un’idea di ciò che non hanno mai visto, ma soltanto una conoscenza rispetto all’esperienza in base a tutti gli altri sensi.
Un’interessante osservazione di un adulto non vedente afferma:
“Il colore è in qualche modo presente nella mia vita, ne conosco l’esistenza, come si possono sentire i suoni di una lingua straniera ignota a cui non si sa quale valore assegnare; tu sai che lo straniero parla, ma non sai che cosa dice.”
Parlare di colori, però, non è un errore. Nell’uso quotidiano ricorrono spesso espressioni come suono chiaro, voci bianche, colore caldo...
Un forte rischio però, per un bambino non vedente, è quello di cadere nel “verbalismo”. Ovvero fare un uso di terminologie, anche complesse, non supportate da esperienze dirette, parole vuote di cui non si sa il significato.
Succede che i bambini non vedenti affermino di conoscere i colori ed anche di sognarli... questo, forse, può avvenire per un desiderio di sentirsi integrati ed uguali agli altri. Il racconto di un sogno sia per i bambini privi di vista che per gli altri, non ha, in apparenza, molte differenze tutti rielaborano e sognano quello che ci accade nella nostra quotidianità, nella nostra vita.
Un non vedente si baserà sulle sue percezioni tattili, uditive ed olfattive.
Non importa se queste rappresentazioni mentali siano o no simili a quelle di un vedente poiché ognuno di noi ha un suo modo di conoscere e costruire la realtà e quindi di sognarla.
Capiamo quanto sia difficile comprendere cosa immagini un non vedente, ma la stessa cosa è vera anche al contrario.

Le immagini mentali
L’interesse dell’uomo nel pensare e rappresentare la realtà è in stretta relazione con il modo in cui ne fa esperienza.
È una consuetudine, però, pensare che l’immagine mentale sia figlia dell’immagine visiva e che quindi una mente privata di questa esperienza non possa contenere alcuna immagine. Il non vedente, nella sua esperienza sensoriale aptica e motoria, acquisisce una padronanza del concetto formando così una raffigurazione mentale. Questa, a sua volta, diventa “immagine guida” e libera la persona dalla presenza fisica del concetto.

Alcune supposizioni...
Per Sartre (Parigi, 1905 – Parigi, 1980, filosofo, scrittore e critico letterario) l’immagine mentale non è nulla di simile ad una cartolina che io possa guardare. È un’illusione di immanenza, è il credere che l’oggetto immaginato ci sia davvero, ma dove? La percezione pone il suo oggetto come presente, l’immagine invece lo presenta come assente. Spieghiamoci meglio, la cosa risulta chiara se proviamo ad immaginare un oggetto che abbiamo davanti. Ci accorgiamo che per immaginarlo dobbiamo chiudere gli occhi o guardare altrove. Ci possiamo quindi riuscire solo nel momento in cui non vediamo più l’oggetto reale davanti ai nostri occhi. L’immagine mentale appare ricca di particolari, ma se cerchiamo di cogliergli, essi sfumano, diventando sempre più deboli, questo dimostra che nell’immagine non c’è nulla che possa essere guardato.

Peirce (Cambridge, 1839 – Milford, 1914 matematico, filosofo, semiologo) non solo nega che l’immagine sia così concretamente reale, ma afferma che le immagini mentali non si vedano affatto, almeno nel modo in cui le intendiamo noi. Ogni cosa è un segno che ha il suo essere non in se ma nel rapporto di se stessa con il contesto. L’immagine mentale è formata da segni in relazione fra loro che creano uno schema di riconoscimento. L’essenza non sta dunque nei segni stessi, ma nella struttura complessiva che costruiscono. Non si sanno con precisione i particolari di un’immagine, bensì se ne percepisce l’insieme, cioè una struttura.

La percezione come esperienza
“E il giardino non ha un suo soffitto?
Si che ce l’ha. È il cielo.
Lo possiamo toccare?
No, nessuno, a parte gli uccellini che volano e gli aeroplani che rombano lontanissimo... ma lo possiamo annusare con il naso perché il cielo è fatto dell’aria che respiriamo.”.
Tratto da: “Un bambino da incontrare” Fondazione Robert Hollman.

È importante esperire il mondo attraverso tutte le nostre esperienze.
La nostra difficoltà sta nel pensare ad un mondo immaginario che non derivi dall’esperienza visiva. Come potremmo spiegare ad un bambino non vedente che differenza c’è tra la notte ed il giorno se queste hanno lo stesso colore?
Lasciamo aperta questa domanda.

Le rappresentazioni
La capacità di disegnare è presente sia nel bambino vedente che non.
I vedenti sfruttano i contorni di luminosità di un oggetto come indicatori di perimetri della superficie.
Per un non vedente questi perimetri sono i bordi che tocca con il tatto. Da questo punto ne consegue un possibile codice comune in una rappresentazione. I punti in contatto riguardano spesso la collocazione e l’orientamento spaziale. Nel disegno di un albero, ad esempio, capita che siano raffigurati non eretti ma distesi.
Risulta carente il senso di rilievo e profondità nel disegno di un oggetto.
È sorprendente quanta analogia ci sia con l’arte degli antichi egizi.
Un’ulteriore differenza tra i bambini vedenti e non, prova che un residuo visivo, anche se scarsa, risulta fondamentale nella percezione della realtà. Infatti, una minima presenza della vista consente di farne maggiormente riferimento, mentre un bambino cieco realizza concetti formali derivati non da esperienze visive ma da plurisensoriali.
Facciamo un esempio: nel rappresentare un autobus quest’ultimo potrebbe disegnare il gradino per salire e la maniglia su cui sostenersi.
Non raffigurerebbe certo tutta la struttura del mezzo, poiché di essa non ne può fare esperienza. Se alla vista basta un semplice colpo d’occhio per capire l’insieme, in modo sintetico ed immediato, il  tatto invece, ha una visione frammentata e più analitica con una conseguente difficoltà di sintesi.
Un oggetto sarà quindi formato da un insieme di particolari.
La prospettiva è un’idea concettuale comprensibile, però solo per soggetti d’età voluta.
Una figura a tutto tondo è più facile da riconoscere, specialmente se questa ha dimensioni ridotte e posso toccarla per l’intero.
Per un bambino non vedente lo stesso oggetto disteso ed incollato su un supporto crea già una piccola difficoltà di comprensione. Nel momento in cui questo si traduce in immagine tridimensionale e quindi in codice rappresentativo, il non vedente dovrà accedervi in modo enigmatico, mediato ed indiretto. La vista ci consente di capire in modo automatico che uno stesso corpo può variare otticamente, ingrandirsi e rimpicciolirsi di dimensione, mantenendo inalterato il medesimo concetto dell’oggetto.
Il tatto invece ha un rapporto 1:1 con il reale e quindi l’idea di scala risulta un’ulteriore rielaborazione.
Mentre un vedente può scrivere un carattere con dimensioni più grandi o più piccole, il Braille, sistema di lettura e scrittura mediante puntini a rilievo, è unidimensionale.
Inventato da Barbier, perfezionato a Parigi nel 1834 da Louis Braille (Coupvray, 4 gennaio 1809 – Parigi, 1852, inventore, ideò l’alfabeto, che da lui prese il nome, utilizzato per la scrittura e lettura dalle persone cieche), importato in Italia intorno al 1870.
Diderot (Langres, 1713 – Parigi, 1784, filosofo, scrittore, enciclopedista) fu il primo ad intuire l’adeguatezza di un puntino a rilievo.
Il sistema per puntini fu considerata una diversificazione dei ciechi dalla normalità sociale e suscitava parecchie perplessità, il sistema Braille si affermò comunque nella metà del secolo diciannovesimo.

Arte e design
Il Tattilismo
Nel 1921 F.T. Marinetti (Alessandria d’Egitto, 1876 – Bellagio, 1944, poeta, scrittore e drammaturgo italiano, editore. Fondatore del movimento futurista, la prima avanguardia storica del Novecento) lancia con un manifesto: il “Tattilismo", anche se questa idea risulta essere già implicita in alcune proposte di manifesto precedenti, legate al tatto, l’olfatto... L’arte del tatto, insieme alla vista e alla parola, porta ad una completa comunicazione tra gli uomini.
Marinetti costruì una prima tavola tattile usando materiali diversi e stabilendone all’interno dei percorsi di lettura.
Egli stesso creò una prima scala educativa del tatto che è allo stesso tempo anche scala di valori tattili.
Vi sono varie categorie:
- sicurissimo, astratto, freddo;
- senza calore, persuasivo, ragionante;
- eccitante, tiepido, nostalgico;
- quasi irritante, caldo, volitivo;
- morbido, caldo, umano;
- caldo, sensuale, spiritoso, affettuoso.
Grazie a questi valori si possono comporre le tavole tattili che permettono alle mani di vagare su di esse ed effett¬uare viaggi tattili. Le tavole non possono essere colorate per non creare distrazioni o interessi diversi da quelli del tatto.
Il tattilismo deve evitare la collaborazione con le arti plastiche, con i pittori e gli scultori che tendono a rendere più importanti i valori visuali rispetto a quelli tattili.

Bruno Munari
Munari (Milano, 1907 – Milano, 1998), poliedrico personaggio, difficile da definire o rinchiudere in una categoria. Potremmo chiamarlo “Inventore”, creatore di macchine inutili, sperimentatore di materiali, osservatore della natura, progettista...
Indaga le forme semplici e le strutture delle cose, degli oggetti.
Tutto in modo semplice, ironico, senza fissarsi su di una tecnica, ma scoprendo all’interno di un tema quante possibilità si possano dischiudere, capace di stupirci, ogni volta in modo diverso. Per lui è importante educare fin dall’infanzia alla lettura cercando di far innamorare i bambini dell’oggetto libro. Libri che si possono interpretare, scoprire, stimolando la fantasia.
Un esempio fra i tanti sono i Prelibri, dodici piccoli libri, ideati e realizzati nel 1979: libri di carta, cartoncino, cartone, legno, panno, spugna, frisellina, plastica, tutti con rilegature differenti una dall’altra e con, al loro interno, una sorpresa differente. Artefatti interessanti dal punto di vista della conoscenza plurisensoriale. Libri che nascono per bambini in età prescolare, che ancora non sappiano ne leggere ne scrivere. Sono senza testo ed il linguaggio è quello dei sensi. Dodici esperienze che diventano grandi nelle mani di un bambino. Un’enciclopedia visiva, tattile, sonora e termica.
Nell’ultima parte della sua vita, ha progettato percorsi-laboratorio sulla didattica dell’arte, spaziando a tuttotondo verso quei linguaggi che non sono solamente visivi, insegnando un metodo per produrre infinite possibilità, non spiegando “cosa fare” bensì “come fare”.

“Se ascolto, dimentico. Se vedo, ricordo. Se faccio, capisco.”.
Antico proverbio cinese

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